Ci sono piloti che rimangono come simboli di un’epoca, anche se non sono mai riusciti a raggiungere quei risultati che, per il loro impegno ed il loro talento, avrebbero meritato.
E’ il caso di Ronnie Peterson, pilota svedese protagonista negli anni Settanta di grandi vittorie, sia con le ruote coperte, sia in F1, dove pur essendo considerato da tutto l’ambiente come il pilota più veloce, non riuscì a diventare Campione del Mondo.
Fu vicecampione nel 1971 con la March, alla sua seconda stagione in F1, ma la sua stella brillò specialmente con la mitica Lotus 72, con la quale corse negli anni successivi. Nel 1973 il suo compagno di squadra Emerson Fittipaldi era campione in carica, ma Ronnie fu spesso più veloce di lui, tuttavia la fragilità meccanica della vettura non gli permise di vincere il titolo.
Nel 1974 il fallimento del modello 76 costrinse Peterson ed Ickx, compagno di squadra, a proseguire la stagione con una vettura ormai datata, ma Ronnie riuscì a vincere a Monaco, in Francia ed a Monza, circuito del quale era considerato il Re.
Le difficoltà economiche della Lotus lo portarono ad abbandonare il team di Colin Chapman, per trasferirsi alla March, con la quale l’anno successivo conquistò per la terza volta il successo a Monza.
In quel periodo, si parlò di alcuni colloqui con Enzo Ferrari, che dopo l’incidente del Nurburgring non era più sicuro della competitività di Lauda. Del resto il Commendatore conosceva Peterson fin dai tempi in cui era suo pilota nel Mondiale Marche (campionato del mondo sportprototipi, ndr) e ne apprezzava il coraggio e la velocità, ma il veto di Niki, tornato in pista a tempo di record, avrebbe portato l’anno seguente a Maranello il più tranquillo Reutemann, buon pilota, dal carattere però tormentato.
Peterson si trasferì alla Tyrrell, dove però, dopo un promettente inizio l’anno precedente, il progetto della vettura a sei ruote non decollò e i risultati furono deludenti. Ronnie non era abilissimo nella messa a punto e di quell’anno si ricorda solo il grave incidente in Giappone che vide Gilles Villeneuve decollare sulla vettura di Peterson, volando tra il pubblico, provocando la morte di alcuni spettatori.
Nonostante tutto, l’anno seguente si aprì la possibilità di tornare alla Lotus, che, dopo alcuni anni di difficoltà, aveva risolto i suoi problemi e l’anno precedente aveva sfiorato il titolo con Andretti. Il ritorno non fu indolore. Chapman, proprietario del team, gli propose un contratto capestro da seconda guida, senza uso del muletto (seconda vettura, ndr) e con l’obbligo di non attaccare il caposquadra.
La stagione cominciò con il vecchio modello, la Lotus 78, ancora competitivo ed in Sudafrica, fuori Andretti, libero di fare la sua gara, Ronnie vinse dopo tanto tempo. Con l’arrivo del modello 79, la concorrenza venne sbaragliata, gli avversari potevano sperare solo in guasti meccanici o in accorgimenti non ammessi dal regolamento, come il ventilatore montato dalla Brabham Alfa Romeo in Svezia e vietato successivamente dalla Federazione.
Andretti, scortato da Peterson, si avvia a vincere il campionato deciso dalla squadra. Ma quando Andretti si ritira, Peterson vince e a Zeltweg arriva la sua seconda vittoria.
Purtroppo Ronnie non può immaginare che sarà l’ultima. A Zandvoort in Olanda vince Andretti, con Peterson che segue per tutta la gara il suo compagno come un’ombra, dando l’impressione di poterlo sorpassare in qualunque momento, ma per contratto non può farlo.
Si arriva a Monza e la domenica mattina Peterson danneggia l’auto nel warm-up. Dovrà partire con la vecchia 78. I rapporti con Chapman sono pessimi, perché Peterson si è accordato con la McLaren per l’anno successivo e quindi non viene data la disponibilità del muletto di Andretti, unica concessione sarà mettere sulla vecchia 78 il motore della vettura incidentata, che è più fresco.
Ma forse sarà proprio questo il motivo della cattiva partenza di Peterson, si parlò di sabbia nei condotti non completamente ripuliti, con il pilota svedese che venne risucchiato a metà schieramento, fino alla toccata con Hunt, con conseguente schianto contro le barriere.
Nell’impatto la Lotus prese fuoco e rimbalzò in pista generando una carambola spaventosa, nella quale sembrò avere la peggio il pilota di casa Vittorio Brambilla, colpito alla testa da una ruota staccatasi da un’altra vettura. Peterson venne estratto cosciente dai rottami, con gravi fratture agli arti inferiori ma senza ustioni rilevanti.
Nessuno saprà mai la causa, se l’inadeguatezza dei soccorsi o qualcosa che accadde durante l’operazione, ma la mattina successiva Ronnie spirò, ufficialmente per un’embolia lipidica, lasciando nello sconforto chi aveva amato quest’uomo, tranquillo nella vita di tutti i giorni, ma leone in pista, oltre alla bellissima moglie Barbro, che, nonostante l’aiuto di John Watson – grande amico di Peterson – non si riprese più dalla tragedia e anni dopo si suicidò, lasciando anche l’adorata figlioletta Nina.
Una carriera incompiuta, finita in tragedia. E quell’anno, oltre alla tragica fine, tra gli appassionati rimase l’amara considerazione che Peterson avesse subito un’ingiustizia e che non avesse vinto il pilota migliore, quello – probabilmente – più veloce di tutti.